martedì 15 ottobre 2013
Due sono oggi le varianti principali del partito a seduzione populista. Nella sua versione oligarchica si afferma il postulato che quello nato con l’annuncio del predellino non è un partito ma un popolo. Con ciò il capo si riveste di attribuzioni autocratiche. Nella declinazione iperdemocratica del primo PD si adotta una estroversa immagine del partito che perde l’autonomia politica legata alla compattezza di un’organizzazione per fondersi con i media quali ingredienti di un partito liquido, che preferisce i gazebo che presto scompaiono alle sezioni, ai circoli, alle fondazioni che restano. In entrambi i casi il populismo suppone una mentalità che determina la scomposizione dei partiti e si riproduce nel tempo ostacolando con la ricomparsa dei soggetti della mediazione. Il paradosso del populismo è che anche chi osteggia la partitocrazia poi edifica un suo partito basato sul complesso aziendale-mediatico come prolungamento del corpo del capo. Anche chi dipinge i partiti come “ossi di seppia” o li ricopre di ingiurie in blasfeme adunate piazzaiole poi inventa un suo partito e magari gli dà il proprio nome.
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