lunedì 23 settembre 2013
Leader al tramonto ma Silvio non molla - C’era, una volta, il “partito personale”. Beninteso, la leadership conta, eccome. La specificità, tutta italiana, in materia, però, è che negli ultimissimi decenni questa componente (decisiva) della politica aveva fatto, proprio da noi, un “salto di qualità”, coagulandosi, giustappunto, in quello che lo scienziato politico Mauro Calise aveva etichettato come “partito personale”. Il quale non è che sia proprio scomparso, ma, per parafrasare una famosa battuta di Woody Allen, non si sente granché bene, mentre una piccola “rivoluzione” investe, al riguardo, l’intero quadro politico, dall’Italia dei valori a Scelta civica. E il fatto che non goda più di ottima salute rappresenta una novità molto seria, e da tenere d’occhio, per quello che è stato un prodotto politologico tipicamente nostrano e “da esportazione”. La Seconda Repubblica, come noto, aveva trovato la sua stella polare nella centralità del titolare della decisione politica e dell’esercizio del comando e, dunque, anche in quella della sua “estensione organizzativa”, il partito personale. Che ha avuto multiformi declinazioni, dall’aumento di prestigio e di protagonismo dei sindaci (all’indomani della loro elezione diretta) alle varie ipotesi di “partiti del premier”, sino, soprattutto, alle formazioni politiche “one man show”, o nelle quali, comunque, il capo risultava davvero tale e non più un primus inter pares, come accadeva nella scoppoliana “Repubblica dei partiti”. Era l’effetto dell’insofferenza via via dilagante nei confronti dei partiti, della richiesta da parte dei cittadini di “contare di più”, della sempre maggiore rilevanza delle figure dei “Principi democratici” (secondo la formula coniata da Sergio Fabbrini) nei sistemi politici contemporanei, ma anche, altra peculiarità molto nazionale, del ritorno della guida carismatica in politica. La formula del partito personale valeva così per la sua manifestazione per antonomasia, Forza Italia (che oggi sta per ritornare in campo, all’insegna di una certa predilezione per l’“usato sicuro” di successo), piuttosto che per la Lista Dini e per il numero sempre crescente di formazioni partitiche che inserivano il nome del leader nel proprio contrassegno elettorale, collocate anche nell’area del centrosinistra, e persino in quella della sinistra tout court. In questi giorni, è precisamente quel modello ad apparire un po’ ammaccato (e appannato). I segnali in tal senso si moltiplicano. L’Idv rinuncia al nome di Antonio Di Pietro – suo leader assoluto per lungo tempo – nel simbolo, ed elegge al congresso un altro segretario, Ignazio Messina (il quale, peraltro, non era il favorito). Scelta civica, che in campagna elettorale aveva puntato sull’immagine di “lista Monti”, si trova ora a vivere una serie di tensioni e divisioni interne tipicamente correntizie. Sel, caso da manuale politologico per la sua originalità di formazione di sinistra radicale con un leader fortissimo (un “partito personale radical”), è alla ricerca di una nuova identità e di un posizionamento non così dipendente da quello di Nichi Vendola. E neppure il Partito democratico, quello chiaramente più plurale (fin troppo…) e refrattario all’idea dell’“uomo solo al comando”, era stato esente dal fascino di quel paradigma, tanto che, nonostante le dichiarazioni contrarie, si era fatto largo con nettezza il personalismo (seppure in versione “moderata” e soft) del candidato premier Pier Luigi Bersani. Mentre adesso si confrontano, in previsione del congresso, una linea più legata alla personalizzazione postmodern come quella di Matteo Renzi e una piattaforma, espressa dal triestino Gianni Cuperlo, esplicitamente anti-personalistica. Lo stesso granitico personalismo intorno a cui è stato costruito il Movimento 5 Stelle ha subito, tra transfughi, fuoriusciti e qualche battaglia interna, più di un colpo, al punto da mettere addirittura in discussione la parola del “caro leader” Beppe Grillo. E perfino a destra – nel caso di Fratelli d’Italia – ovvero laddove il leaderismo costuisce un pezzo imprescindibile della cultura politica tradizionale, si propone (anche, verosimilmente, per difetto di figure atta alla bisogna…) una leadership a più teste. Resiste, di fatto (e immancabilmente), soltanto l’immarcescibile Silvio Berlusconi. Ma, a occhio e croce, per il partito personale si direbbe iniziata la parabola discendente...
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