#Sociologia - L'Italia di Berlusconi come caso di studio per la scienza politica - Paolo Ceri, docente di sociologia all’Università di Firenze, tenta di individuare i fattori principali alla base del reiterato consenso degli Italiani a Berlusconi. Tra i fattori cruciali: 1) la soddisfazione di interessi di determinate categorie sociali; 2) la manipolazione dell’opinione pubblica; 3) il deficit di controlli e contropoteri istituzionali; 4) l’assenza di una valida alternativa di governo; 5) la carenza di cultura democratica degli Italiani, che somigliano a Berlusconi o a cui Berlusconi mostra di rassomigliare. Più sinteticamente, Berlusconi è stato capace di costruire consenso sul soddisfare, sull’influenzare e sull’intendersi, ovvero sul «rappresentare interessi specifici», sul «manipolare per mezzo dei media» e sul «riconoscersi simili» (p. 31). Dando rilievo non soltanto al consenso attivo dato per convenienza o convinzione, ma anche al consenso passivo dell’elettorato affascinato, Ceri suggerisce di guardare in via prioritaria ai fattori culturali: «Sotto questo profilo anche il deficit di controlli e contropoteri, che tanto allarma all’interno e all’estero, è più un fatto di costituzione materiale che di costituzione formale, più un dato culturale che un dato strutturale» (p. 31). Ceri offre un’analisi complessa della strategia comunicativa e autorappresentativa di Berlusconi: «L’assommarsi di politica della complicità e politica dell’intimità si esplica in quanto: 1) uso della seduzione come ponte e della televisione come canale; 2) congiunzione di esposizione vistosa e vittimismo – la pratica del vittimismo potenziata dall’esposizione vistosa – nella messa in scena di una politica della guerra, una continua ordalia plebiscitaria tra “Noi buoni” e “Loro cattivi”; 3) combinazione di vittimismo e deistituzionalizzazione – le azioni di deistituzionalizzazione giustificate col vittimismo –, che alimenta una politica di populismo anarchico funzionale a un’inedita forma di cesarismo legibus solutus» (p. 233). Tale cesarismo necessita di una serie altrettanto inedita di cinture protettive: Ceri distingue l’inner circle composto dai compagni di ventura «fin dai tempi di Milano 2 e Publitalia, cui si sono aggiunti alcuni politici navigati, dotati di capacità di mediazione o, come i transfughi della sinistra, di attacco»; la seconda cerchia che fa da cintura di protezione, «formata da portavoce, ministri, avvocati personali direttori di giornale e di reti televisive aventi, quali “seguaci da guardia”, alcuni la funzione di studiare i modi per tutelare gli interessi, soprattutto giudiziari, del capo, altri quelli di farlo screditando gli avversari di turno»; la terza cerchia, di cooptazione, « composta da un buon numero di ministri, sottosegretari, parlamentari, amministratori pubblici, giornalisti, avvocati in organo di garanzia fino alle... ragazze immagine». Infine la quarta cerchia, degli attivisti, di quelli che cantano con qualche convinzione Per fortuna Silvio c’è. Il sistema di rapporti clientelari così edificato, estremamente dispendioso, fa risaltare una lacuna nell’analisi della teoria della democrazia: il nodo problematico dell’età di Berlusconi riguarda l’elaborazione di una critica dei processi di legittimazione possibili in democrazia. Occorre comprendere cosa manca affinché tali processi, a prescindere da Berlusconi, conducano il meno possibile verso forme di cesarismo e di populismo mediatico come quelle più volte denunciate nell’Italia degli ultimi vent’anni. Ginsborg e Asquer aggiungono altri elementi all’analisi del berlusconismo come sistema di potere e di governo in cui il potere legislativo ed esecutivo convergono sulla persona che dispone al tempo stesso del maggior potere economico e mediatico nel Paese. Alcuni contributi (Santomassimo, Gozzini) del libro trovano le premesse del berlusconismo negli anni Ottanta, nell’affermarsi dell’individualismo concorrenziale tanto in politica quanto nelle narrazioni prevalenti della televisione: è il senso stesso «[...] di Dallas, serial trasmesso dal 1978 negli Stati Uniti e dal 1981 su Rai 1 in seconda serata, per poi passare dopo pochi mesi su Canale 5 (dal 1980 il primo canale televisivo privato di Berlusconi) e diventare un potente traino degli ascolti. Si inaugura allora un genere – Dynasty (1982), Flamingo Road (1982), Dancing Days (1982), Anche i ricchi piangono (1982), Beautiful (1990) – che riduce il mondo e la vita a un microcosmo di individui governato dalle logiche (cooperative o conflittuali a seconda dei casi) della sopravvivenza personale» (G. Gozzini, «Siamo proprio noi, pp. 15-29, cit. da p. 25). Già nel 1993 Aldo Grasso scriveva: «È una Tv che ama sostituirsi alle istituzioni: alla Polizia, alla Magistratura, al Parlamento, al Governo. Dietro i modi perbenistici di Rita Dalla Chiesa o di Fabrizio Frizzi, dietro le grinfie di Donatella Raffai, dietro le concioni di Michele Santoro, dietro le lacrime in diretta, dietro la telefonata del ministro si nasconde un’arroganza smisurata, un imbroglio senza fine» (A. Grasso, Al paese dei Berlusconi, Garzanti, Milano 1993, p. 66). E ancora: «Con la chiacchiera in Tv nasce una nuova dimensione dello squallore. Per la prima volta, scrutando i volti degli uomini politici che affollano i salotti televisivi, o quelli dei conduttori che si sostituiscono all’Istituzione, siamo colpiti dal presagio che il nostro Paese possa essere definitivamente mediocre, cialtrone, inerte». Quello che è stato un presagio diventa oggi, a quasi vent’anni di distanza, un vasto campo di eventi da indagare. Con il termine “berlusconismo” si può designare il sistema di potere e il clima morale in cui si sono combinate ed intensificate tendenze preesistenti al «privatismo della vita quotidiana», alla «passività prodotta dalla televisione» (P. Ginsborg, I ceti medi: cambiamenti, culture e divisioni politiche, pp. 48-56), al miracolismo, al personalismo e al clientelismo: fenomeni verso i quali la sinistra ha reagito – questa l’imputazione più frequente – con l’atteggiamento prevalente di un «eclettismo confuso, ispirato solo dalla sudditanza a ciò che di volta in volta viene inteso come “politicamente corretto”» (G. Santomassimo, L’eredità degli anni Ottanta. L’inizio della mutazione, pp. 3-14, cit. da p. 13).
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